lo spazio vuoto

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venerdì 2 dicembre 2022

POETICA DELL'ABITARE IN FILEMONE E BAUCI

 


Mille domos adiere, locum requiere petentes,

mille domos clausere serae. Tamen una recepit,…

 

Nec refert, dominos illic famulosne requires:

Tota domus dua sunt, idem parentque iubentque.

 

Ergo ubi caelicolae parvos tetigere penates 

Submissosque humiles intrarunt vertice postes,…


La poetica dell’abitare nel racconto di Filemone e Bauci trova compimento nei gesti di cura quotidiana che i due vecchi riservano a quegli strani viandanti, dei dall’aspetto umano, invisibili stranieri giunti all’improvviso tra le strade di un dimenticato villaggio della Frigia.

Ma la poetica dell’abitare si sostanzia soprattutto di parole, con cui Ovidio costruisce una semantica dell’accoglienza tutta incentrata sul vano esercizio del potere all’interno delle mura domestiche, ma anche certamene fuori in una dimensione più spiccatamente politica, come vedremo. 

Ecco allora che la domus, le domus, visto che singolare e plurale sono identici trattandosi di un sostantivo di quarta declinazione, sono quegli spazi su cui è il dominus a comandare, quei padroni che sprangano le porte ai due stranieri in cerca di un luogo per riposare.

Il dominus così è colui che si riconosce dall’esercizio violento del suo potere, un potere tuttavia che è circoscritto alle mura della propria casa. 

Una sola piccola dimora resta aperta e proprio lì al suo interno Ovidio ci dice che non è possibile capire chi è il dominus e chi il famulus, il padrone e il servo, dentro quelle mura non viene messo in pratica quel potere che invece aveva fatto sprangare le porte delle altre case. Saltano cioè in quella casa le gerarchie di cui si sostanzia la società del tempo, perché quella è una tota domus duo, laddove domus è singolare e plurale: una casa, due case-corpo, senza servi né padroni.

Che poetica dell’abitare rivoluzionaria!

Ma non basta. Pochi versi ancora e quella casa diventa davvero segno e sostanza, semantica di un nuovo modo di concepire l’abitare umano degli spazi, non solo quelli circoscritti alle mura domestiche, perché quella casa resta aperta in una relazione d’incontro con tutto quello che viene da fuori, senza tuttavia dimenticare la storia che l’ha generata così com’è. È in questo senso che va inteso quella presentazione di Filemone e Bauci come di due vecchi che vivono insieme in quella casa fin dalla loro giovinezza, accogliendo nel tempo la vecchiaia e la semplicità della loro vita. 
Con tutto quello che nel tempo sono diventati, i due vecchi tengono la porta aperta e danno ospitalità ai due viandanti stranieri. 

E allora i caelicolae, così vengono nominati gli dei, dal verbo colo, cioè coloro che abitano il cielo, si avvicinano a quella piccola casa e entrano, chinando il capo, perché gli stipiti sono bassi.

Persino gli dei non sono padroni del cielo, ma sono appunto caelicolae

Il verbo colo ha a che fare l’abitare un territorio rendendolo fecondo con le proprie azioni, con l’azione di coltivare la terra, per esempio nel caso dei coloni, che sono infatti coloro che fanno fruttare lo spazio nuovo che si sono trovati ad abitare, praticando quell’attività che ha dato origine alla dimensione stanziale dei gruppi umani e che li ha condotti ai diversificati processi di urbanizzazione. 

Abitare un territorio significa allora renderlo fecondo e generativo in una prospettiva di comunità.

Ergo ubi caelicolae parvos tetigere penates: dunque gli dei sono abitanti del cielo perché compiono azioni che rendono fecondo il luogo in cui abitano, il cielo appunto. 

E si avvicinano a quella piccola casa, che qui viene però nominata con un termine di straordinaria bellezza: parvos penates.

Quanta ricchezza, meraviglia e potenza nella lingua di Ovidio!

Quella piccola casa infatti non è più domus, ma penates!

Penates però sono le divinità tutelari, che nella storia della religiosità romana avevano la funzione di proteggere la casa con i suoi abitanti. Il termine deriva dal sostantivo penus, penum, che indicava le provviste di viveri, riposte nella parte più nascosta della casa, in un luogo protetto e al sicuro da umidità e insetti. 

Penates sono anche le divinità che Enea porta con sé fuggendo da Troia e che con lui giungono, secondo il racconto che ne fa Virgilio nell’Eneide, a Lavinium dove nel VI a.C. i magistrati eletti, prima di assumere o deporre la carica, venivano a compiere sacrifici proprio davanti a quei Penati giunti da Troia con Enea. 

Quegli stessi Penati che sono rappresentati nel monumento celebrativo alla pace  di Augusto, fatto erigere dal Senato a partire 13 a.C. e inaugurato nel 9 a.C., l'Ara Pacis: qui sono rappresentati come due giovani in armi che siedono all'interno di un tempietto, posto in alto di fronte a un non più giovane Enea che, appena giunto sulle coste laziali, sacrifica proprio ai Penati portati da Troia una scrofa bianca e i suoi trenta porcellini.  

Penati quindi stranieri che però erano finiti nel culto della città di Roma, secondo la versione che Virgilio ne dà nell’Eneide. Penati di Virgilio che Ovidio conosceva bene, visto che quando Ovidio scriveva i suoi versi, quelli di Virgilio era già da molti anni entrati a far parte della propaganda di Augusto, proprio grazie al suo poema celebrativo. Ovidio invece di lì a poco, dopo la stesura delle Metamorfosi avrebbe conquistato ben altra posizione, l’esilio in una terra desolata, a Tomi, sul lago di Costanza, dove, lo sappiamo dai Tristia, il suo scritto testamentario, avrebbe consumato i suoi giorni fino alla morte.

Dunque parvos penates è la casa di Filemone e Bauci, collocata in una terra che respinge gli stranieri in cerca di un luogo per riposare. 

Esattamente il contrario di quanto accade ad Enea, che, portando da Troia con sé quei Penati, viene accolto sulle coste laziali, diventando così progenitore della gens Iulia.

Il termine parvos penates viene usato metaforicamente per indicare tutto ciò che ha a che fare con la casa, il nido, uno spazio protetto, in cui non trova luogo il potere del dominus, proprio perché come abbiamo visto si riferisce a quelle provviste che venivano custodite nel Penius, la parte della casa più protetta da variazioni termiche e infestanti.

Ecco allora che la casa che accoglie non è la domus, le domus, che restano edifici nei quali il potere esercitato non vale a salvarle dalla catastrofe di un’inondazione, al contrario proprio la loro chiusura ne determinerà la fine, la scomparsa fisica. 

La casa che accoglie allora è un sostantivo plurale, perché solo al plurale ha senso, proprio come i due protagonisti della storia, e viene salvata dall’inondazione perché i due vecchi, Filemone e Bauci, sono protagonisti di una forma di accoglienza che si situa nel solco della Storia, di quei Penati stranieri che tra le mani di Anchise e sulle spalle di Enea giungono fino a Roma, un'accoglienza che continuerà anche successivamente, attraverso la metamorfosi dei due anziani contadini della Frigia.

Una poetica dell’abitare allora in cui le parole sono semantica di un’esistenza nella quale lo spazio della casa e quello geografico del territorio vengono abitati, non dominati, in una sorta di relazione osmotica che chiede contaminazione e trasformazione, metamorfosi appunto.

Una metamorfosi resa possibile grazie a un senso della Storia che attraversa tutta la narrazione. 

Abitare uno spazio significa essere nella Storia con la propria storia, disposti a condividere ciò che si è, ciò che si ha, custodendo ciò che la vita ha offerto, e  sapendone al contempo fare offerta. 

Filemone e Bauci non sanno di avere di fronte due divinità, eppure sono prodighi nell’offrire, nel preparare il cibo, come fosse un’offerta a quei Penati custodi della casa e del tempio, che di lì a poco la loro stessa casa diventerà.

Casa allora è dove risiedono i Penati, dove ha luogo il culto della memoria, che si fa vivo nei gesti concreti dei due vecchi capaci di tenere la porta aperta e di offrire, come fosse un'offerta sacrificale, tutto ciò che hanno.

Al contrario l'esercizio del potere dentro le mura domestiche, dentro i confini del proprio paese, dentro le proprie tradizioni, che si chiudono all'incontro con lo straniero, con il non ancora conosciuto, conducono a una storia che rende su lungo termine infecondo quel territorio, quella casa, quel paese, come racconta bene Ovidio nella storia di Filemone e Bauci. Sopravvive chi sa aprirsi al dialogo, chi sa fare memoria delle proprie tradizioni nell'incontro con l'altro.

Così sembra dirci anche Ovidio nelle ultime parole delle sue Metamorfosi, consapevole forse che i suoi dissapori con Augusto lo avrebbero posto definitivamente a margine, non solo della corte, ma della vita culturale della città, ma non certo della Storia, che infatti ancora ne porta avanti la memoria e il testamento letterario. 


Queste infatti le ultime parole delle sue Metamorfosi:


E ormai ho compiuto un'opera che né l'ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo che tutto rode potranno cancellare. Quando vorrà, venga pure il giorno fatale - che può però disporre solo di questo corpo - e ponga pure fine allo spazio (quale sia io non so) della mia vita. Ma con la parte migliore di me io volerò in eterno più in alto delle stelle, e il nome mio rimarrà indelebile. E ovunque si estende, sulle terre domate, la potenza romana, le labbra del popolo mi leggeranno, e per tutti i secoli, grazie alla fama, se qualcosa di vero c'è nelle predizioni dei poeti, vivrò. 

(trad. P.B. Mazzolla) 

Sulla poetica dell'abitare tanto abbiamo ancora da imparare dai  due vecchi abitanti della Frigia, Filemone e Bauci.


(La traduzione del testo di Filemone e Bauci presente nelle Metamorfosi di Ovidio è di chi scrive, le illustrazioni sono di Daniela Tieni, ed è edito dalla casa editrice Topipittori)



venerdì 23 settembre 2022

UNO SGUARDO SU ... L'IMMENSITÀ

L' Immensita' | Cinema Porto Astra

Qualche giorno fa sono stata al cinema a vedere L’immensità, un film la cui uscita ha destato fin da subito curiosità e aspettative. Curiosità perché l'ipotesi della storia autobiografica e personale del regista, Emanuele Crialese, ha destato un’iperbole crescente di attenzione, come se questo fatto dovesse di per sé essere un valore, una qualità a prescindere. Chi come me ha a che fare con la costruzione delle storie sa che il verosimile è vero, tanto quanto una storia autobiografica. Più volte il regista ha detto che questo è sì un film che a che fare con la sua storia, ma non ha voluto che a essere rappresentata fosse solo la sua personale esperienza di vita.

Ma torniamo alla storia del film, che a questo punto è corretto dire è ispirata a quella del regista, con l’intenzione di rendere universale, come solo l’arte sa fare, una storia personale.

Al centro della storia la telecamera punta il suo occhio sulla famiglia protagonista, ma la narrazione è portata avanti dallo sguardo dei bambini, i tre figli della coppia, Adriana, la più grande, Gino il mediano, e Diana, la piccola.

Siamo negli anni settanta, Clara, la madre straniera, motivo per il quale non viene doppiata, ed è infatti impersonata dalla meravigliosa Penelope Cruz, si mostra fin da subito nella sua estrema fragilità, una donna succube di uomo arrogante, violento e fedigrafo. 

I bambini guardano, in silenzio, osservano, cercano di opporsi per come possono a quello che non riescono a comprendere: il comportamento del padre, chiuso nella gabbia di uno stereotipo maschile che non gli lascia sperimentare altro che l’impartire ordini; il comportamento della madre, che prova a celare la crisi, a nascondersi e a nascondere dietro a una giocosità forzata, una propensione al divertimento che appare fin da subito eccessiva, quasi invadente nei confronti dei bambini, a tal punto che in una scena Adriana le dice che lei non può fare quel gioco, deve stare nel mondo di sopra, con gli adulti, il suo essere estranea oltreché straniera. 

Una giocosità con la quale vorrebbe proteggere e al tempo stesso sdrammatizzare il senso di oppressione, il sentirsi preda in gabbia, non solo di quell’uomo con cui ha generato i suoi figli, ma di un sistema di convenzioni che per anni ha chiesto alle donne di tacere e di occupare un ruolo liminale nella società. 

Così fin dalla prima scena lo spettatore avverte questo senso di angoscia, e insieme con i bambini protagonisti, non riesce a essere pienamente partecipe di quell’ostentata danza di apparecchiamento per una cena nella quale ospiti non graditi sono il padre e il silenzio.

Eppure quei bambini attoniti e silenziosi hanno una voce, che parla attraverso il corpo, i gesti, le azioni: Adriana, che sente nel profondo di non essere una bambina e vorrebbe diventare un bambino, porta avanti piccole scelte di ribellione, varca confini proibiti, come il canneto, un elemento scenico dai chiari rimandi fiabeschi, anche per il modo in cui la cinepresa vi passa in mezzo, e che porta la protagonista a sperimentare la ricerca della propria identità, l’essere amata per come è. È proprio oltre il canneto che incontra infatti una ragazzina, alla quale si presenta come Andrea e con la quale nasce un sentimento sincero e profondo di amicizia e affetto, proprio perché la sua amica la/lo riconosce per quello che è. 

E poi ci sono Gino, il mediano, che mangia troppo ed evacua in corridoio, per dare dimostrazione della sua presenza, per non restare schiacciato da quella figura paterna così diversa da lui, e per non restare fuori dal quel rapporto così speciale che la madre ha con Adri e con la più piccola Diana.

Ma anche Diana grida al mondo tutta la paura di camminare sempre in bilico sull’orlo del disastro: lei infatti cerca ostinatamente di richiamare l’attenzione trasformando il cibo, e il momento della condivisione del cibo, in una occasione di immaginazione, così ciò che è nel piatto viene ridisegnato, e mai mangiato.

Luana Giuliani, Patrizio Francioni e Maria Chiara Goretti ne L'Immensità

Potentemente immaginifico è anche il richiamo ai varietà con cui la TV di Stato faceva il suo ingresso nelle case degli italiani, con una Raffaella Carrà che coniugando corpo, voce e parole restituiva alla società tutta l’immagine di una donna che poteva esprimere desideri, un corpo suo e una presenza scenica viva e vitale.  

La TV rappresenta nel film una sorta di finestra aperta su un mondo in cui davvero è possibile, anche solo per il tempo di un varietà, immaginare una società libera dalle convenzioni sociali, che costringono in ruoli asfittici madri, padri e figli.

Ma ciò che davvero rende questo film un capolavoro è la poesia della fotografia, che irrompe con squarci luminosi come da un Altrove, con soluzioni sceniche che affondano dagli occhi dello spettatore verso l’interno, e vanno ad agganciarsi a qualcosa di profondo, un terreno comune in cui poter sentire, in sintonia con i personaggi, i sentimenti e le emozioni più profonde, che fanno Rumore, proprio come canta Raffaella Carrà in una delle scene iniziali, e che chiedono di essere accolte, convocate alla presenza dello spettatore, senza essere giudicate.

Più volte il regista ha dichiarato che il film ha a che fare con temi a lui cari come la donna e la maternità, i bambini, le migrazioni, la transizione di un’anima.

Ma il film è molto, molto di più, un manifesto poetico alla fragilità dell’esistenza, un inno alla libertà di essere un essere umano, cantato, mi viene da dire, con delicatezza, rispetto e cura, soprattutto nei confronti di quei bambini che continuano a osservarci, anche quando non prestiamo loro attenzione. 

Proprio agli attori bambini va una menzione speciale, perché, nonostante fosse per ognuno di loro la prima volta sul set, hanno reso i personaggi interpretati indimenticabili. 

Nel titolo mi piace pensare a un mondo che nell'immensità del suo sguardo possa accogliere le voci e i corpi plurali delle sue creature. 

Bravo Crialese ma bravi davvero tutti 

mercoledì 14 settembre 2022

LA STORIA E NOI


Della morte della Regina Elisabetta II mi hanno fatto riflettere due aspetti, il primo di evidenza storica oggettiva, il secondo legato alla risonanza mediatica dal forte afflato nostalgico, non solo per il popolo inglese, che la sua dipartita ha generato in tutto il mondo.

L’aspetto storico che segna un passaggio epocale è che con la Regina Elisabetta II se n’è andata l’ultima persona ad aver conosciuto e dialogato con Winston Churchill, una figura politica che mi ha sempre affascinato. È stato detto da moltissimi quotidiani, la Regina Elisabetta II ha rappresentato fino a ora quel ponte tra due mondi situati tra la fine del novecento e l'inizio del nuovo millennio, ponte sul quale lei ha saputo camminare, in perfetto equilibrio, creando solide relazioni. Il legame tra la Regina Elisabetta II e Winston Churchill costitutiva parte di questo ponte. 

Per quanto riguarda la risonanza mediatica della sua morte, questo mi ha indotto ad alcune riflessioni e domande.

La monarchia rappresenta una delle istituzione più antiche al mondo e ha sempre fondato la sua sopravvivenza  sull’esercizio di privilegi e poteri, spesso ben oltre i propri confini nazionali. Eppure verso questa istituzione, almeno a giudicare dalle immagini da cui siamo stati inondati nei giorni passati e ancora oggi, la comunità europea nutre una certa nostalgia. Dove affondano le radici di questa nostalgia, e perché sono così pervicaci tanto da mobilitare in modo univoco l’opinione pubblica senza alcuna riserva?

Sabato, mentre ero in auto, ho avuto modo di ascoltare l’ultima puntata di una trasmissione a me molto cara, Mappe del tempo. L’avventura dell’archeologia, su Rai Radio Tre, un programma a cura di Monica D’Onofrio, condotto in studio da Andrea Augenti. Il titolo della puntata era A chi appartiene il passato? Restituzioni. Raccontava in modo molto accurato la questione dei marmi del Partenone, trafugati in modo illecito (anche se il governo inglese non la pensa esattamente così) agli inizi del 1800 da Thomas Bruce, VII conte di Elgin, nobile scozzese che lavorando alacremente e, aggiungerei, spietatamente sull’acropoli, sezionò pezzi del fregio e statue dei frontoni per facilitarne il trasporto verso l’Inghilterra, dove, come racconta Augenti e come è documentato dal carteggio personale di Lord Elgin, avrebbero dovuto abbellire la sua residenza. 

Che i fregi del Partenone e alcune statue dei frontoni siano poi confluiti nel British Museum lo si deve alle sventurate condizioni economiche in cui si trovò a vivere Lord Elgin negli anni a venire, e per le quali lui stesso decise che sarebbe stato meglio vendere quei preziosi reperti e incassare una cifra tale da consentirgli di rimediare ai suoi disastri economici. 

La commissione parlamentare inglese incaricata di valutare l’operato d Lord Elgin, verificò, pur senza un documento originale che ne attestasse la liceità, che effettivamente era stato dato mandato dal governatore locale del regno ottomano che allora governava su Atene (qui un bell'articolo su Atene ottomana), di poter portare reperti archeologici nel Regno Unito. In realtà le cose non stavano proprio così, e Augenti lo racconta molto bene nella trasmissione che invito a ascoltare.

E così i marmi del Partenone divennero una delle collezioni più prestigiose del British Museum.

Fino a quando a metà degli anni ottanta del '900 l'allora ministra della cultura greca,  Melina Mercouri, non avviò richiesta formale di restituzione dei marmi del Partenone al suo paese di provenienza per appropriazione indebita. 

Ovviamente fregi e statue sottratte dal conte Elgin si trovano ancora nel British Museum.

La questione ha dato vita però a un acceso dibattito, che, come giustamente mette in luce Augenti, travalica i confini del lecito e dell’illecito, che sarebbe già sufficiente, visto che non è mai stato trovato un documento ufficiale che legittimi la spoliazione, per approdare su un terreno simbolico e ideologico, per il quale il British Museum, non potrebbe mai privarsi dei marmi del Partenone.

Mi sono occupata di questioni simili per la mia tesi di specializzazione in Museologia e Museografia, che ricostruiva, proprio sotto il profilo simbolico e ideologico, l’operato di Sir Austen Layard, quando agli inizi dell’’800, dopo il fortunatissimo ritrovamento dei rilievi neo-assiri prima nel sito della moderna Khakhu, antica Nimrud, poi in quello di Ninive, durante le attività di scavo in Iraq, legittimamente concesse dal Vizir ottomano e finanziate proprio dal British Museum, inviò alla cugina, Lady Charlotte Guest, diverse casse di reperti, che confluirono, dopo attento studio progettuale, nel Portico di Ninive, una sorta di maestoso ingresso alla residenza Guest, nella forma di una cappella neo-gotica.

Anche in quel caso la questione dell’appropriazione e dell’allestimento museale diventava la modalità ideologica per mostrare come l’impero britannico fosse l’unica realtà istituzionale e politica in grado di ereditare l’antico, conservarlo e muoversi in direzione del progresso. Mi sono divertita moltissimo a scandagliare come la struttura neo-gotica del portico fosse stata posta in relazione semantica con la disposizione delle lastre, per veicolare un preciso messaggio ideologico, ho scoperto aspetti molto interessanti, che presto vedranno la luce in un articolo.


Per quanto riguarda i marmi del Partenone questo è ancora più evidente perché la Grecia rappresenta la patria delle istituzioni democratiche, di cui l’Europa e l’Occidente in generale non possono che sentirsi evoluta espressione.

Non è un caso che le ragioni addotte dal governo britannico prima del 2009, anno di inaugurazione del Museo dell’Acropoli di Atene, un museo di straordinaria bellezza e ideazione museologica, per continuare a tenere fregi e le statue del Partenone ancora sul suolo britannico, riguardavano la convinzione che i marmi sarebbero stati più al sicuro e disponibili a un più vasto pubblico lì dove erano stati indebitamente trasportati, estirpandoli dal proprio contesto archeologico e culturale, piuttosto che sul suolo natio, l'unico in grado di restituire il loro autentico valore storico e scientifico.

Cosa c’entra allora potremmo chiederci tutto questo con la morte della Regina Elisabetta II e la deflagrante onda mediatica dal forte sapore nostalgico che sua la scomparsa ha mosso? 

Cosa sentiamo di aver perso con la scomparsa della sovrana più longeva del Regno Unito? 

Cosa il governo inglese non vorrebbe dover perdere restituendo la collezione dei marmi del Partenone al suo legittimo proprietario? 

Torniamo allora alla prima domanda: dove affondano le radici di questo senso nostalgico e qual è il terreno ideologico sul quale sono cresciuti i presupposti secondo i quali opere d’arte appartenente a un paese terzo e a questo sottratte, debbano stare altrove? 

Pur essendo l’Europa formata da stati nazionali con storie individuali è evidenza chiara che la storia di questi stessi stati è intrecciata da avvicendamenti di potere, guerre, divisioni che li hanno visti tutti protagonisti l'uno della storia dell'altro. La compagine politica e nazionale che oggi vediamo formare la nostra Europa è frutto di centinaia d’anni di storia comune, una storia che si è giocata entro i confini dell’Europa ma anche fuori, con l’ampliamento dei confini geografici attraverso le conquiste coloniali. I presupposti ideologici di tali conquiste affondano nella consapevolezza di rappresentare, proprio grazie al processo di formazione degli stati nazionali nel corso della Grande Storia, le migliori forme di governo possibile, il miglior modello di civiltà. 

Lo spiega bene Augenti quando nel programma citato ricorda la formazione del museo inglese Pitt Rivers ad Oxford il cui fondo più importante è costituito dai materiali etnografici sottratti con la conquista e il genocidio al regno africano del Benin, attuale Nigeria, una storia agghiacciante di cui poco si parla, ma che rappresenta davvero uno scandalo, nel pieno senso etimologico della parola greca (qui un'accurato articolo sulla dibattuta questione). 

Il possesso di questi materiali e la loro esposizione era servita a legittimare la conquista di quel regno alla fine del 1800, con la scusa, non vera, che si trattasse di opere d’arte sottratte ad un popolo addirittura dedito al sacrificio umano. Erano certo di straordinaria bellezza, ma in ogni caso chi le aveva prodotte viveva di un modello sociale non paragonabile a quello classico occidentale, la cui superiorità si fondava  proprio a partire dalla sua storia antica, visibile e visitabile nel British Museum, nei marmi del Partenone appunto, che incarnavano invece, per la storia che rappresentavano, quanto di più elevato l’Occidente classico avesse prodotto, e di cui, non c’è neanche bisogno di dirlo, il regno inglese ne era l’erede più rappresentativo. 

Il Partenone infatti venne costruito con un impegno economico estremo a seguito di circa trent'anni di guerre contro i Persiani, che avevano ridotto l'acropoli a un cumulo di rovine. A Pericle si deve l'ardire di così grande investimento, a Callicrate e a Fidia la progettazione architettonica e decorativa del grande tempio dedicato alla dea poliade Atena Partenos, la quale aveva garantito la definitiva sconfitta dei barbari. Basta leggere le Storie di Erodoto per farsi un'idea di come venissero dipinti i Persiani dai civilissimi greci. Non c'era alcun dubbio i Greci avevano vinto sui barbari Persiani, garantendo così alla Democrazia di continuare a esistere. 

Le statue e i fregi del Partenone hanno da sempre rappresentato in modo inequivocabile quella vittoria sulle oscure forze tese a sovvertire i principi democratici  e civili sui quali si fonda la civiltà occidentale.

In un tempo di grave crisi come quella attuale nella quale sembra davvero di essere in balia di forze oscure che governano in maniera caotica e devastante la vita di ciascuno di noi, i valori incarnati dalla sovrana inglese appena scomparsa possono rappresentare un richiamo ideologico e nostalgico a un tempo di sicurezza perduto, che discende direttamente da quella Grecia classica presente nel British Museum e di cui il Regno Unito se ne trova a essere erede. 

Oggi più che mai allora sembra lontana l'ipotesi di una restituzione dei marmi della collezione Elgin alla Grecia, nonostante è del 2019 una risoluzione dell'Unesco che invita al dialogo i due paesi e a una forma di conciliazione. (Mi chiedo onestamente quale forma di conciliazione sia mai possibile).

Ora più che mai però, con la morte della Regina Elisabetta II, credo che il governo greco tornerà a bussare alla porta, e il governo inglese insieme al suo nuovo re, Carlo III, dovranno decidere se davvero diventare una moderna monarchia parlamentare, che sa riconoscere nelle vicende storiche che l'hanno attraversata azioni niente affatto edificanti, se non addirittura brutali come nel caso del Benin, e riconsiderare la possibilità che la restituzione dei marmi della collezione Elgin  o dei bronzi del Benin possano rifondare le condizioni di nuovo modello di civiltà. 

La Storia, quando ne diventiamo consapevoli autori, non ci chiede di essere nostalgici, ma presenti al momento presente, che è l'unico punto in cui il presente e il passato possono incontrarsi e diventare futuro.







 

martedì 1 settembre 2020

CAMMINANDO...


Monte La Meta

Scorcio di fine estate. Un tempo per smarrire il percorso, sbagliare direzione.

Mi è capitato a volte, che mi si chiedesse perché andare in montagna, salire, sudare, fare fatica. 

Per arrivare in cima, ho sempre detto io, e mangiarmi un panino, contemplando la bellezza del creato. 

Ma la cima poi sta lì e tu devi tornare giù, e a parte qualche foto, resta solo l'acido nelle gambe, che il giorno dopo ti fa camminare come il noto e amato Uomo di latta, prima che Dorothy gli lubrifichi le giunture.

Si fa fatica a dire le ragioni dell'andare se non hai la montagna nelle gambe e nel cuore. 

In montagna ci andavo con mio padre, fin da bambina. 

Anche solo a camminare, anche senza ascesa. 

Da lui ho imparato che a salire si comincia presto al mattino, che ognuno ha il suo passo, ma non si lascia indietro nessuno, soprattutto se fa fatica, né cominci a ricorrere chi è più agile. Semplicemente cerchi un modo per trovare l'armonia dell'andare, pure se ognuno va come riesce. 


Da lui ho imparato che in montagna si va sempre con l'acqua, più di quella che pensi potrebbe servirti, e con gli scarponi, quelli alti per proteggere le caviglie, che ci si veste a cipolla, che bisogna indossare la canottiera, portarsi un cambio, e sempre uno scacciacqua, perché in montagna il tempo cambia molto rapidamente. 

E poi mai dimenticare un bastone, anche se sei giovani e hai le gambe di elasti-girl, perché nella difficoltà potresti non essere quella che pensi di essere, e allora è meglio avere un sostegno. Nella nostra casina di montagna, in Molise, conserviamo tutti i bastoni che lui ci ha fatto, di altezze diverse, noi crescevamo in fretta e i bastoni si accorciavano, anno dopo anno. 

Da lui ho imparato soprattutto che per andare in montagna bisogna studiare le carte e mai mai mai andare fuori percorso. Ci diceva che della montagna bisogna avere rispetto, che un percorso non valeva un altro, quindi era meglio scegliere sulla base delle proprie reali possibilità, senza mentire a se stessi. Sia in salita che in discesa dovevamo controllare e seguire i segnali, lasciati sulle rocce o sugli alberi, da chi si era preso la briga di aprire una via. 

Via che serviva a tutelare gli escursionisti, quelli più esperti e quelli dell'ultimo minuto. Un sentiero che soprattutto avrebbe circoscritto geograficamente il passaggio dell'uomo, per lasciare intatto agli abitanti del bosco il loro regno.

Della montagna ho sempre avuto timore, mi sono sempre sentita come  se dovessi entrare da ospite mal vestita nella casa di una vecchia famiglia aristocratica, una casa che non era la mia, in cui mi si riservava un'accoglienza impeccabile, circondata da meraviglie, nella quale avrei dovuto imparare di volta in volta una sorta di lessico famigliare, capace di consentirmi un dialogo autentico, non di circostanza. 

Quando ho cominciato ad andare in montagna da sola, anche senza mio padre, è capitato che sbagliassi sentiero, per un breve tratto, per distrazione, o ne scegliessi un'altro, nonostante le sue raccomandazioni. 

È capitato che rimanessi indietro, parecchio rispetto agli altri compagni di viaggio, e il mio scarso senso dell'orientamento abbia fatto il resto. Ho anche avuto paura.

È capitato altre volte di percorrere un tratto fuori sentiero, per scelta  per andare oltre, per poter dire: sono arrivata anche lì. Per sentire cosa accade dentro quando fai qualcosa che non dovresti fare, che sai che che è meglio non fare.

È capitato che salissi ignorando il maltempo e che fossi costretta a scendere senza vedere a nemmeno mezzo metro dai miei passi. Per fortuna in quella circostanza non ero da sola. 

Questa volta però è stato diverso.

E non perché fosse un'escursione nuova, anzi. 

Era una di quelle fatte e rifatte con mio padre in circa vent'anni di camminate. 

La conosco bene, so cosa c'è lungo il percorso, come si inerpica dentro il bosco, come è la vista quando si esce dal fitto degli alberi e si comincia a salire nella piccola valle che porta al valico e poi in cima. Di quella escursione conosco i tempi e la fatica. 


La conosco così bene da non aver neanche pensato di portare con noi la carta dei sentieri. 

Sbagliare è stato semplice, naturale. 

È bastato percorrere un sentiero che pensavo di conoscere. 

È bastato affidarsi al già saputo, all'arroganza del già percorso, a un senso della memoria, che nella maggioranza dei casi salva dal dover imparare ogni giorno a fare le cose consuete, ma che in altri inganna, sovrappone al sentire l'abitudine di passi stratificatisi sempre nello stesso modo.

Eppure era così evidente che non si trattava del percorso fatto in tanti anni di escursioni: invece che un unico chiaro inequivocabile sentiero, ci siamo trovati difronte a minute piccole piste, tracciate forse dagli animali, che avevano smosso il fogliame spesso del sottobosco. 

E poi moltissimi rami e tronchi di varie dimensioni che ostacolavano il percorso, come se le mani di una tempesta impetuosa fossero passate con violenza tra le chiome degli alberi, strappando via i rami più fragili.

Però abbiamo proseguito, dentro di me ho costruito la mia spiegazione, mi sono detta che l'inattività dei mesi di chiusura aveva portato anche lì a uno sconvolgimento. 

Forse non era stato possibile ai taglialegna, ripulire il sottobosco, e così tutto era a soqquadro. La casa in cui pensavo di dover essere accolta non era stata messa a posto. Ho avuto anche l'ardire di lamentarmi: da giugno a agosto di tempo ce n'è stato per fare pulizie. 

Qualche segno poi continuava ad apparire sporadicamente qua e là. Sempre incerto, sempre poco chiaro. Così abbiamo proseguito. 

Fino a quando è divenuto del tutto evidente che avevamo sbagliato percorso. 

In un punto ho avuto paura, si scivolava, lo spesso strato di foglie secche copriva piccole rocce, ingannando l'appoggio, non c'era niente a cui aggrapparsi, non avevamo bastoni, alla nostra sinistra poi si apriva un piccolo dirupo, nulla di così pericoloso, ma sufficiente a rompersi diverse ossa, cadendoci dentro.

Abbiamo dovuto proseguire, io davanti, cercando di indicare i punti in cui mettere i piedi, e a ripetere come un mantra di tenersi il più possibile lontani dal precipizio. Il marito ottimista era in coda, a consolidare i consigli. 

La paura generata da situazioni di questo tipo è degli adulti, non dei giovani. La figlia temeraria e il figlio contestatore, mi sono stati dietro, attenti, smorzando la mia ansia con ironia.

Il tratto fatto in queste condizioni è stato breve. Dopo poco siamo usciti a riveder ... la luce del sole, a inquadrare la cima che avremmo dovuto raggiungere, e a orientare di nuovo i nostri passi in direzione del percorso segnato. 

Ho ripensato a lungo nei giorni a seguire a questo scorcio d'estate in cui su un sentiero, che pensavo di conoscere, mi sono persa, trascinandomi dietro la famiglia. 

Mentre decidevamo cosa fare e come procedere, se tornare indietro o proseguire, come poi abbiamo fatto, il bosco aveva una voce diversa, in realtà aveva la sua voce. 

Quella voce a cui non avevo prestato attenzione sommersa dal fruscio dei miei pensieri che percorrevano un cammino preteso, battuto negli anni.

Per lunghi istanti ci siamo fermati ad ascoltare, mentre a turno uno di noi adulti esplorava il percorso in avanti. Abbiamo dovuto fare silenzio, per acuire i sensi, per sentire dove tirava il vento, per capire se ci fossero animali in zona. 

E ce n'erano, le tracce erano inequivocabili, avremmo potuto ricostruire la loro dieta. Che tipo di animali è facile a dirsi: mucche e pecore negli stazzi a mezza costa, camosci in cima, qualche orso in prossimità di cavità delle rocce nel bosco, lupi di sicuro, che però sono estremamente guardinghi nei confronti del loro più acerrimo nemico. 

Ci sono confini precisi tra gli spazi addomesticati dall'uomo e il regno della natura. Anche se spesso gli ignoriamo del tutto.

Noi in qualche modo e senza volerlo eravamo sul margine, in una zona di limite, in uno spazio concesso all'uomo, dentro un regno non suo. 

La percezione che quel tratto di bosco fosse abitato da altre creature è stata vivida e ineludibile. Eravamo ospiti, inattesi. 

Sbagliare percorso mi ha costretto a far accomodare il cervello nel retro del cranio.

Mi sono resa conto che sapere non è sentire, che abituarsi a una strada percorsa negli anni, ottunde i sensi, la mente diventa padrona, e costruiamo una natura a immagine del nostro sapere, peggio delle nostre proiezioni emotive. 

Salire sapendo i percorsi, ti fa arrivare in cima comodo e sicuro, ma è come se lo sguardo scivolasse via dalle cose che sono attorno, come se i confini del proprio corpo fossero tutti stretti aggrovigliati intorno alla testa: e così la trama complessa di quel particolare mondo naturale non esiste più in sé, ma solo per te, in funzione dell'obiettivo che stai perseguendo.

Sbagliare percorso mi ha costretto a un passo indietro, mi ha rimesso in una posizione di relazione aperta, nella quale non potevo più sovrapporre il mio sapere a qualcosa che in fondo non comprendevo.

Sbagliare percorso apre la percezione dei sensi su uno spazio vuoto nel quale non puoi che attendere silenziosamente che si facciano vive le voci di un mondo che è estraneo al tuo. E tentare una qualche forma di comprensione, per imparare a conoscere, semplicemente.

Fermarsi e ascoltare è l'unica possibilità che ti sia data di procedere, e vai avanti a tentoni, non puoi  più disporre i tuoi passi in sequenza preordinata e distratta. Devi prestare attenzione. 

Prestare attenzione e pazienza, rallentare, lasciare che ci sia l'incontro tra il desiderio di procedere e salire in alto, e quello di cercare i passi, necessari, essenziali, nuovi, a volte in bilico, uno dopo l'altro, senza sprechi. 

In quel bosco, perdendomi, ho sentito che quello era anche il modo in cui avrei voluto cercare le mie parole.

Parole per dire, il dolore, il vuoto, la paura, l'ansia, la gioia, il pudore, l'emozione di poter stare senza percorso e farcela. 

Farcela non è una sfida, sapere il percorso in montagna è necessario, vitale, però s'impara anche perdendo la strada, restando a misurare i tuoi respiri nel vuoto, quel vuoto in cui potresti anche precipitare. 

Si può imparare anche a stare al cospetto del vuoto, per accorgersi che è da lì che poi si può tornare con passi più attenti sul sentiero.






martedì 13 marzo 2018

Al-Ghouta (per me)

Ho chiaro in mente, come uno scatto fotografico, quella pagina del mio libro di protostoria del Vicino Oriente Antico, in cui poco più di vent'anni fa scoprii l'esistenza di una regione in Siria, chiamata Ghouta. 
L'attuale oasi di Damasco o "Ghouta", è il risultato dell'utilizzo e del prosciugamento progressivo, nella steppa che fiancheggia a est l'Anti-Libano, di un fiume di montagna, il Barada, suddiviso dall'uomo in una feconda e complessa rete di canali che irrigano le colture. In questa forma artificiale l'oasi è recente e non risale molto oltre la nostra era. Nel Pleistocene il fiume si gettava ancora in un lago molto grande, situato leggermente ad est dell'oasi attuale e il livello di questo lago non ha smesso di abbassarsi, fino ad arrivare, nell'Olocene, ai due piccoli laghi attuali. Verso il 9000 a.C. uno di questi, il lago Ateibé, era contornato da paludi che hanno fornito le canne utilizzate durante il neolitico nell'architettura del villaggio di Aswad, situato sulle sue rive. Malgrado le precipitazioni (attualmente 200 mm. d'acqua all'anno) fossero troppo scarse per le colture aride e non avessero permesso, come si è visto, la crescita spontanea di cereali selvatici, i terreni sedimentari, costituiti da delle marne lacustri lasciate dal ritirarsi del lago e delle argille alluvionali portate dal Barada, e umidificati inoltre dalla prossimità delle paludi, dovevano essere assai favorevoli alle colture. Gli Aswadiani furono i primi occupanti di tali terreni. (J. Cauvin, Nascita delle divinità e nascita dell'agricoltura,. La Rivoluzione dei simboli nel Neolitico, pag.74)
Immediatamente accanto a quella pagina me ne viene in mente un'altra, quella nella quale il nostro Maestro di Storia del Vicino Oriente Antico, Mario Liverani, descrive il concetto di nicchia ecologica, mentre parla dei caratteri di realtà ecologica appunto e di mappe mentali, quindi storicamente definite, usati entrambi per connotare il Vicino Oriente: 
Opposto è il concetto di nicchia (ecologica e culturale), che sottolinea il valore di certe zone, compatte e coerenti, delimitate da interfacce anche ravvicinate, e protette rispetto all'ambiente circostante in modo tale da riuscire a sviluppare al meglio le loro potenzialità produttive e organizzative. La nicchia può essere anche piccola (una vallata intermontana, un'oasi), tanto piccola che nella dimensione dei fenomeni economici e storici cui siamo oggi abituati non potrebbe svolgere alcuna funzione autonoma e specifica. Ma occorre ricordare che la dimensione dei fenomeni con cui abbiamo a che fare nel Vicino Oriente di età pro-storica e storica pre-classica è una dimensione molto ridotta: le concentrazioni umane, gli accumuli di eccedenze, le sistemazioni territoriali, le competenze artigianali e i contatti commerciali acquistano un ruolo storicamente già avvertibile anche se costretti entro ambiti quantitativamente modestissimi. (M. Liverani, Antico Oriente. Storia, società, economia, Editori Laterza, pag. 31)

Il Ghouta è stata una delle nicchie ecologiche nelle quali si è manifestata quella che Gordon Childe definì la rivoluzione neolitica, un processo lungo e diversificato, che condusse i gruppi umani a una trasformazione radicale dei modi di vita sociale ed economica, e dunque culturale. 
A Tell Aswad, ai margini orientali del Ghouta, le ricerche, condotte da J. Cauvin, hanno mostrato l'evidenza di un grano domestico, che, con grande probabilità, quel gruppo umano, lì insediatosi, aveva portato dalle pendici dell'Anti-Libano. 
Tra i resti è attestato anche dell'orzo che continua tuttavia a manifestare le caratteristiche di tipo selvatico (Hordeum spontanea). Questo non vuole dire che non fosse coltivato, semplicemente che non evidenziava ancora trasformazioni morfologiche. Secondo alcuni studiosi nell'oasi di Ghouta sono stati anche coltivati piselli e lenticchie. L'alimentazione veniva poi integrata dalla raccolta di frutti selvatici, pistacchi, capperi e fichi, mentre le risorse di carne provenivano esclusivamente dalla caccia, mancando tracce di domesticazione animale. 
Più recentemente (2000-2006) Tell Aswad è stato protagonista di una nuova eccezionale scoperta, fatta dall'archeologa francese D. Stordeur (qui potete leggere l'articolo per esteso): si tratta del ritrovamento di crani rimodellati, usati nell'aree funerarie del sito, come elemento di fondazione delle aree stesse a partire dal PPNB medio e recente (Pre-Pottery Neolithic B, 7300-6650). La pratica non è nuova nel Vicino Oriente ma in questo caso è interessante la sua presenza diffusa, oltreché la straordinarietà della realizzazione e il risultato ottenuto, visibile nelle foto che seguono. 
            Tell Aswad, crani 741-CS3, dall'articolo di D. Stordeur
Le aree cimiteriali individuate, poste ai margini del villaggio di Tell Aswad, sono state due, una più antica e l'altra più recente. Gli aspetti interessanti di queste pratiche funerarie sono legati per esempio al fatto che la deposizione dei crani modellati, venisse posta a fondamento delle inumazioni successive,  ma contestuali cronologicamente, disposte in prossimità dei crani stessi, i quali venivano presumibilmente lavorati sul posto. 
  Tell Aswad, crani 741-CS1, dall'articolo di D. Stordeur
La lavorazione del cranio consisteva nel riempimento della testa e nella successiva lavorazione del volto, con la stesura di un impasto molto sottile di colore bianco, una specie di intonaco, che andava a riempire anche gli occhi, nei quali veniva poi praticata una fessura orizzontale ad indicarne la chiusura, e nella fessura veniva posta una sottile striscia di bitume, verosimilmente a rappresentare le ciglia. Il naso era perfettamente modellato con l'indicazione delle narici, la bocca veniva rappresentata da una semplice fenditura, con un leggero rilievo ad indicare le labbra, e in molti casi il volto veniva ricoperto dal colore in ocra rossa.
Studi di confronto prodotti con altri siti della regione, da Ain Ghazal a Besamoun, da Gerico a Ramad, hanno indotto l'archeologa Stordeur a ritenere che le aree cimiteriali fossero di pertinenza del gruppo per intero, e non limitate a un insieme domestico.
La funzione di questi crani era quella di fondare ritualmente l'area destinata a ospitare i defunti. Le sepolture collettive venivano riaperte ogni qual volta era necessario deporre un nuovo defunto, cosa che spesso ha provocato lo scasso dei livelli sottostanti, e in un caso anche la rottura di uno dei crani rimodellati.
La vita collettiva aveva prodotto nel tempo, non solo la capacità di generare modelli produttivi che garantissero la stabilità del gruppo, ma anche strutture simboliche che affinassero la capacità di elaborare l'inspiegabile, come la morte.
A questo riguardo è particolarmente suggestivo il ritrovamento dello scheletro di un bambino, di circa un anno di età, adagiato immediatamente sopra l'insieme dei crani rimodellati.
Tell Aswad, crani 741-CS1, CS2,CS3 e al centro lo scheletro del     bambino, dall'articolo di D. Stordeur
Tutto a testimoniare la profondità culturale di quest'area, quella nella quale gruppi umani, mediando tra gli elementi ecosistemici e le proprie aspettative, hanno dato fondamento ai primi esperimenti di vita comunitaria insieme, scegliendo di rimanere stabili in un luogo. 
Esperimenti vincenti e che richiedevano progettualità di durata nel tempo, ricerca di condizioni di interdipendenza solide e condivise, e che da quei millenni in poi, stiamo parlando del IX millennio a.C., hanno portato nel giro di altri cinque millenni alla fondazione delle prime strutture urbane. Il resto è storia, nel senso tecnico, cioè storia che comincia a essere anche scritta, con l'invenzione della scrittura.
Ecco, per me, e detto davvero in poche parole perché la letteratura scientifica è sterminata, questo è il mio Ghouta, la mia personale nicchia simbolica, quel luogo accogliente, raccolto, ospitale, nel quale l'uomo ha messo a dimora non solo semi, ma proiezioni di futuro, storie, prassi sociali, comportamenti, che lo hanno reso umano in senso pieno, stabile e consapevole.
Sapere che proprio il Ghouta è oggi, in queste ore, terreno di devastazione umana, inabissamento dell'accoglienza, del vivere civile, di ogni possibile proiezione di futuro, annientata nelle vittime bambine, è per me oltremodo inconcepibile e doloroso. 
Un dolore sordo, che mi inebetisce difronte alle immagini, che trasloca la coscienza a fondo, alla ricerca di un qualche logica inaudita, perché incapace di comprendere file ordinate di parole che dovrebbero spiegare l'inspiegabile di strategie folli e che riducono la storia millenaria e straordinaria di questo popolo, insieme al suo popolo stesso, in un cumulo di macerie umane, materiale e spirituali. 
BASTA, DAVVERO BASTA!


sabato 3 febbraio 2018

MURI

La parola MURO è diventata oramai nel linguaggio corrente sinonimo di confine, barriera, qualcosa che deve separare e tenere  lontano, al di là, qualcuno o qualcosa che non si vuole al di qua.
Un elemento architettonico che divide, separa, ostacola i passaggi, impedisce una visione più ampia, ma al contempo è percepito come elemento di protezione, di sicurezza. 
Non rappresenta più parte di un insieme articolato a fare una casa, uno spazio comune, un progetto desiderato di condivisione.
Si fa MURO sempre più spesso con le parole, nei pensieri, coi gesti, ci si contrappone l'uno all'altro erigendo MURI appunto, come se insieme, anche nella diversità di vedute, non fosse possibile costruire uno spazio comune di condivisione sociale e civica.
L'Europa è pervasa da muri, pochi reali, molti moltissimi ideologici e ideali. Il nostro stesso mare è stato trasformato in un MURO.
Eppure per tutti questi MURI che ci sentiamo crescere addosso, intorno, dentro, che spesso non vogliamo, e che invece a volte contribuiamo a erigere, ne esistono altri, dove la bellezza, pur nella sua caducità diventa strumento semantico di incontro, di speranza, di condivisione, di lavoro comune, di un cercarsi e ritrovarsi, che è segno vivo della natura umana. 
Questa mattina si è svolta, per il secondo anno consecutivo, la manifestazione MURI SICURI, nella zona di Roma che è a tutti gli effetti Tor Pignattara, anche se si trova a destra della via Casilina, andando verso il centro, mentre via di Torpignattara è invece a sinistra. 
La manifestazione è nata per sostenere la ricostruzione dei luoghi culturali colpiti dal terremoto del 2016 e vi hanno aderito 115 guide  turistiche di Roma, che autotassandosi, hanno consentito a due artisti, Diavù e Solo, di realizzare un'opera di street art, all'interno del quartiere. 
                                        Diavù al lavoro

              Il Muro di Solo in lavorazione, soggetto X-Men

La mia adorata amica e guida Marta, ci ha accompagnati all'interno del quartiere, tra via dell'Acqua Bullicante e via della Marranella, via Capua e Largo B. Perestrello, tra negozi, case, scuole, vita quotidiana, raccontandoci di come questo quartiere sia nato e quale vocazione, in conseguenza della sua formazione, abbia sempre manifestato.
Il quartiere, per chi non lo conosce, ha una storia abbastanza recente. È solo dalla fine degli anni 20' che entra a far parte a pieno titolo, ovvero attraverso una delibera comunale, del territorio di Roma, essendo fino allora considerato spazio extraurbano. 
Prima di quella data, tuttavia la zona era stata interessata da un fenomeno migratorio intenso, che portava artigiani e contadini dalle colline laziali a cercare, prima di vendere i propri prodotti, poi definitivamente a stabilirsi qui. 
Le condizioni di vita erano estremamente precarie, chi veniva si costruiva da sé baracche, ricoveri di fortuna, non c'erano fognature e il fosso dell'Acqua Bullicante, o Marranella, fungeva da fogna a cielo aperto. 
L'inserimento all'interno del territorio di Roma significò dunque una prima fornitura di servizi, in primis luce, acqua e un sistema fognario. E poi subito dopo l'edificazione di alloggi ad opera dell'Istituto Autonomo per le Case Popolari. 
Durante il fascismo il quartiere divenne centrale nella lotta di liberazione di Roma dai nazi-fascisti, trovandosi in una posizione strategica per l'accesso diretto al fronte di guerra di Cassino. Testimonianza ne sono le numerose pietre d'inciampo dislocate lungo del vie, ultima delle quali posata in via dell'Acqua Bullicante 137, nel dicembre scorso, e dedicata al giovane partigiano Giordano Sangalli, morto combattendo in Sabina.
Due altri momenti contraddistinguono in modo significativo la storia del quartiere e ne denotano il suo carattere: il boom edilizio degli anni 70', frutto di un successivo fenomeno migratorio interno, e il nuovo, oramai non più tanto recente, ripopolamento, frutto questa volta delle migrazioni extra-comunitarie che ben conosciamo. 
La comunità extra-comunitaria più numerosa è rappresentata dai bengalesi, ma consistenti sono anche quelle  peruviane, rumene, cinesi, filippine e nordafricane. 
La vocazione di questo quartiere è sempre stata quella dunque di convivere fianco fianco con tradizioni, storie, culture differenti, divenendo nel tempo un modello di integrazione vivo e vitale.
Ma questo non è che un verso della medaglia, che non restituisce la complessità della convivenza multietnica, in condizioni economiche difficili e nel grave stato di abbandono ad opera delle istituzioni. È un quartiere estremamente complicato ma non di meno ancora vitale grazie al fermento culturale resistente di associazioni e cittadini che continuano a seminare cultura e bellezza.

   Diavù, ex-cinema Impero, via dell'Acqua Bullicante 121, Anna Magnani, realizzato insieme ai ritratti di Mario Monicelli, Pier Paolo Paolini e i fratelli Citti, per la riapertura del cinema, marzo 2014
          Diavù, ex-cinema Impero, Pier Paolo Pasolini, Marzo 2014

Basta alzare lo sguardo e camminare in cerca di MURI: sono quelli che hanno attirato nel corso di questi ultimi anni street artist italiani e stranieri con interventi di una bellezza davvero straordinaria. 

              Jeff Aerosol, 24 maggio 2014, via della Marranella

E sono quelli che hanno portato giornalisti, che hanno raccolto attorno a un progetto collettivo, le famiglie di interi palazzi, palazzi anch'essi multietnici, per trovare la formula e contribuire alla realizzazione di un MURO, che fosse quella di prendere in mano secchio e scopa, o quella di dare un contributo economico. 

                         Etnik, via Perestrello, Marzo 2015

È attorno a questo progetto artistico che la comunità, o meglio le comunità, si sono ritrovate, dimostrando, come se fosse necessario, che abbiamo bisogno di vivere e convivere con la bellezza, una bellezza che esprima nei segni artistici, il senso di un estetica che è anche etica, e che possano narrare al mondo chi siamo, dove stiamo andando e perché.

              Carlos Atoche, via della Marranella, 26 aprile 2015
              Jeff Aerosol, Via della Marranella, 24 maggio 2014

Non solo, attorno e grazie ai MURI sono cresciute e divenute poli culturali due gallerie, la Varsi e la Wunderkammer, che in alcuni casi hanno sponsorizzato le opere e ospitato le mostre degli artisti. 
I Muri, tutti autorizzati dal Comune, hanno messo in relazione artisti, cittadinanza e istituzioni, in una rete di relazioni generative e dialoganti. Un successo enorme in un tessuto urbano e sociale difficile. I problemi tanti e gravi restano, eppure questi Muri ci dicono che la bellezza non solo è possibile, ma è desiderata, cercata, rispettata e necessaria. 

              Etam Cru, Via L. Pavoni 178, 10 ottobre 2014

Grazie di cuore a MuriSicuri per questa iniziativa e a Marta per la storia che ci ha raccontato,  e per tutte le storie che sono linfa vitale dei nostri incontri. 
MuriSicuri quest'anno devolve l'intero ricavato della manifestazione per la ricostruzione dei luoghi culturali di Matelica.

Allego alcuni link utili per saperne di più sugli artisti e sul quartiere: