lo spazio vuoto

lo spazio vuoto

mercoledì 9 novembre 2016

Seme di Dio

Vivevamo lì da poche settimane.
Capitava che mi svegliassi di notte. La casa era grande, vuota, muta.
Allora mettevo fuori le braccia per sentire l’aria, per capire dov’ero.
Fuori il buio era denso, io mi sentivo straniera in quella stanza nuova, tutta per me.
L’avevo desiderata, immaginata, sognata, sperata. Ma ora avevo paura.
Fiori giganti senza stelo ricoprivano per intero le pareti.
A volte mi sembrava di sentirli muovere, sfiorarmi i capelli coi loro petali di velluto dai colori sgargianti.
Nel cambio di vita avevo perso la mia nicchia nel letto, quello che si tirava giù la sera col buio, e si chiudeva di giorno. Ora avevo solo le coperte, troppo leggere, per seppellirmici dentro.
Poi un giorno arrivò lei. Mia nonna, Emilia, la madre di mia madre.



Non me lo avevano detto che avrei dovuto dividere la stanza con lei. Ero titubante e incuriosita. Presto cominciai a conoscerla.
Si alzava sempre prima dell’alba, minuta dentro il suo abito nero, e percorreva quello spazio incantato tra il sonno e la veglia, come un personaggio delle fiabe. Piccoli gesti silenziosi la portavano fuori dal buio.
La sentivo zappettare in giadino, i suoi fiori, le piante dell’orto, i suoi ricordi, le speranze ancora da farsi. Col tempo da dentro il mio letto, imparai a riconoscere i rumori degli attrezzi, dentro le sue mani, il tempo della pota e quello della semina. Mi piaceva ascoltare a occhi chiusi gli odori della primavera, l’arsura dell’estate, lo scroscio dell’acqua sulla terra assetata, la pulizia delle foglie d’autunno, le coperte, stese a mantello sui rami degli alberi contro il gelo dell’inverno.
Lei sapeva come abitare la notte senza timore, nel suo letto a due piazze, alto come una montagna. Da quando era arrivata nella mia stanza, non ero più sola nel buio. La sentivo spesso sussurrare parole, come avesse accanto qualcuno con cui confidarsi.



Una notte, con il cuore in gola per un sogno cattivo, attraversai lo spazio vuoto tra il mio letto e il suo.
Mi arrampicai sulla montagna e mi rannicchiai al suo fianco. Poi cercai la sua mano.
Dentro il palmo teneva un grumo vivace di piccole perle che faceva scorrere tra le dita, cantilenando parole sempre uguali, che io non capivo.
Mi abbracciò stretta, e mi addormentai cullata dai suoi bisbigli.
Con lei ho imparato a lavorare la terra, quella dei raccolti, e quella dei miei sogni, ho tracciato solchi per mettere a dimora talee di rose e semi di fiducia, ho assaporato il tempo dell’alba per far crescere gesti di cura e immaginazione. Con lei ho imparato ad ascoltare i ritmi delle stagioni e quelle dei cuori, a vedere anche nel buio della paura luminosi silenzi, a scavare dentro ogni piccola parola per ritrovare radici potenti di storie nuove.
Gli alberi, i fiori, le piante del mio giardino ostentano ancora all’aria i segni indelebili delle sue cure. Io continuo a svegliarmi di notte, e continuo a ritrovare la sua voce. Infilo la mano sotto il cuscino e mi aggrappo al filo delle sue perle, le sgrano senza parole, fino ad arrivare alla croce ormai consumata delle sue preghiere. E trovo pace in quello spazio incantato tra il sonno e la veglia, dove lei ancora mi attende.

In sua memoria, 21 agosto 1908 - 21 Novembre 1992 

(Pubblicato su Illustrati, Novembre 2014)

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